La maternità come esperienza radicale

Ripubblichiamo l’articolo di Gaia Benzi sul blog della casa editrice D editore. Articolo intero https://dzine.deditore.com/it/maternita-radicale/

“Il corpo gravido è un corpo pubblico di proprietà collettiva, sul quale tutti e tutte sentono di poter sindacare. Non c’è freno alle domande impudiche, ai divieti e alle illazioni su come dovrebbe o non dovrebbe essere, su cosa dovrebbe o non dovrebbe fare la persona incinta, che ora non è più individuo a sé stante – se mai lo è stato – ma corpo-macchina responsabile della riproduzione della specie. In realtà, ogni corpo di donna in età fertile è già gravido, almeno in potenza, dunque soggetto a questo processo di appropriazione, e ogni donna crescendo lo scopre a sue spese; ma la gravidanza, in quanto realizzazione finale e obiettivo implicito di questo processo, lo porta a un livello ulteriore.

C’è qualcosa, nel processo generativo, di totalmente estraneo allo sfruttamento senza fine proprio della logica patriarcale dei “parametri di produttività”: un’istanza creativa e vivificante che gli resiste con tutte le forze e dal profondo delle nostre viscere.

È anche a questo che penso quando parlo di maternità come esperienza radicale, esperienza che radicalizza. Quando si dice, certamente cedendo a uno stereotipo invalso, che una madre sarebbe “disposta a tutto” per i propri figli, si sta traducendo in un linguaggio normalizzante e rassicurante la molteplice radicalità dell’esperienza materna. È la potenza generatrice di cui parla Adrienne Rich in Nato di donna, la potenza delle voci del Wall of Mums che, nelle manifestazioni di Portland a supporto di Black Lives Matter, intonavano a gran voce: «Feds stay clear, the moms are here!». Una potenza che governa la riproduzione della vita umana sulla terra e per questo atterrisce e spaventa; una potenza che l’istituzione della maternità tenta da sempre di imbrigliare e sopprimere per evitare che le donne possano disporne liberamente. È per questo che la materialità della maternità, fatta di corpo che genera, corpo a disposizione, che sanguina e allatta e lacrima e abita il mondo umido del post partum, sembra essere un tabù. Un tempo le donne della famiglia e della cerchia sociale più ristretta affollavano la casa della puerpera per dare una mano, creando una rete di cura e condividendo conoscenze e consigli; oggi si resta fin da subito sole, piene di dubbi e costrette a cercare su Google o nei consultori, quando ci sono, supporto e comprensione. Il parto stesso sembra un segreto terribile da non rivelare a nessuno. Un tempo era esperienza tramandata anche a chi madre non era, oggi è relegata nel privato delle scelte individuali, depoliticizzata. Eppure, niente come aver partorito mi ha palesato la centralità delle battaglie femministe sui diritti riproduttivi, prima su tutte il diritto all’aborto: l’idea di costringere una persona a vivere senza consenso nella propria carne un evento estremo come il parto è una violenza ancora più inaudibile, più inaccettabile di prima.

Ripensare la maternità in ottica femminista, attraverso uno sguardo che sia finalmente libero dal materno come ruolo idealizzato dalla società patriarcale e che affondi le sue riflessioni invece nei nostri corpi, è un imperativo non più rimandabile. Credo che indagare la potenza vivificante e creatrice della maternità, nutrirci collettivamente della sua radicalità generatrice e condividerla con chi non l’ha vissuta direttamente, andando oltre le barriere del genere e delle scelte individuali, possa aiutarci a mettere a punto strumenti politici di riappropriazione del corpo e del suo utilizzo. Per un mondo che risponda finalmente ai nostri desideri e non più, come oggi, ai “parametri di produttività” delle aziende che lo governano.”