Da qualche giorno è stata confermata la notizia che gli accordi bilaterali tra Italia e Francia riguardanti la possibilità di accesso ai servizi sanitari da parte dei transfrontalieri nell’ospedale di Briancon non sono stati rinnovati. O almeno, non sono stati riconfermati, aprendo così l’ennesimo vuoto per garantire l’accesso alla salute per chi vive in Valsusa.
Nel corso dell’indagine che stiamo svolgendo sul territorio valsusino rispetto alla situazione delle interruzioni volontarie di gravidanza, ci eravamo recate a Briancon per chiedere conferma della possibilità di abortire presso la struttura francese. Fino a poco tempo fa, questa insieme all’ospedale di Rivoli e il Sant’Anna di Torino, era tra le poche possibilità presenti per le persone che vivono la valle per poter interrompere la gravidanza. Abortire in Francia è molto più semplice che in Italia: di recente il diritto all’aborto è stato esteso con la possibilità di garantire l’aborto chirurgico fino alla 14esima settimana da parte di ostetriche che già potevano fornire l’aborto farmacologico (vedi articolo precedente sul sito rispetto al ruolo delle ostetriche nell’aborto) rendendone quindi l’accesso più veloce ed eliminano il periodo di riflessione dei 2 giorni che era obbligatorio soprattutto per le minorenni. Tutte queste modifiche e le pratiche precedenti sono pensate per garantire un accesso puntuale e limitare i tempi d’attesa per far sì che le donne francesi non debbano recarsi in altri paesi per poter abortire.
Cosa che non succede nel nostro territorio, dove a causa della palese posizione antiabortista della Regione Piemonte, le persone che desiderano interrompere la gravidanza e che si trovano in Valsusa hanno solo tre opzioni: rivolgersi all’unico centro IVG sul territorio, ovvero l’Ospedale di Rivoli, recarsi al Sant’Anna di Torino o superare la frontiera alpina e rivolgersi a Briancon. Le opzioni ora si sono ridotte ulteriormente presentando notevoli problemi non solo relativi all’accesso all’aborto ma anche all’accesso generale a servizi di cura.
L’ospedale di Rivoli ha 4 medici obiettori su 5. Inoltre se provate a fare una ricerca su google con le parole “aborto” e “rivoli” vedrete che al secondo posto il motore di ricerca subdolamente invierà le persone che necessitano di abortire al Centro Aiuto alla Vita, un centro gestito dal movimento pro-life che a Rivoli ha appena ricevuto 25mila euro dalla Regione per promuovere iniziative di aiuto alla vita, rafforzando così la loro presenza all’interno dell’Ospedale.
L’Ospedale Sant’Anna invece presenta diversi aspetti critici per quanto riguarda il rapporto che intercorre tra una sanità centrata sull’ospedale e sulle grandi città e la totale assenza di una medicina territoriale come succede in Valsusa. Il dottor Viale responsabile del servizio unificato per l’IVG a Torino e famoso per essere stato un accanito sostenitore del diritto all’aborto e tra i primi a sperimentare la RU486 in Italia. Voci di corridoio alzano il sospetto rispetto ad un interesse dell’ospedale torinese di centralizzare il servizio all’aborto rispetto a tutta la regione e sicuramente le limitazioni presenti al di fuori di Torino permettono al Sant’Anna di affermarsi da questo punto di vista. Infatti, il noto radicale Viale, poco o nulla ha detto rispetto alla necessità di promuovere una medicina territoriale e le sue posizioni sembrano più vicine ad una pubblicità autoreferenziale che a posizioni politiche nette nei confronti della Regione rispetto alla necessità di garantire l’accesso alla RU486 anche al di fuori degli ospedali. Dato che, e questo lo ribadiamo, non c’è nessun motivo reale per cui la RU486 debba essere somministrata in Ospedale e non nei consultori o addirittura a gestione della donna in casa.
Resta da dire che all’interno dell’ASLTO3 a cui afferisce la Valsusa rientra anche l’ospedale di Pinerolo, in cui l’accesso all’aborto è garantito. Ma a separarci c’è un’intera catena montuosa, il che rende ridicolo pensare che all’interno della seconda ASL più popolosa della provincia di Torino, l’aborto sia effettivamente garantito.
Riportiamo l’esempio dell’accesso all’aborto a dimostrazione del fatto che le logiche che governano la sanità pubblica sono le stesse che guidano l’intera sanità dell’ASLTO3. Sul territorio valsusino c’è da un paio di anni una morìa di medici di base, all’interno dei 4 consultori della valle manca il personale necessario per garantire un’apertura costante. Senza dimenticare la chiusura di reparti specialistici (come è successo a Susa) se non di interi ospedali (come è avvenuto ad Avigliana). E i sindaci dell’unione montana, abbagliati dai fondi del PNRR premono per la fantomatica telemedicina che, anche fornendo una soluzione per i buchi presenti nella sanità, faticherebbe a provvedere in ogni caso ad un reale contributo alle cure non essendoci a monte le risorse umane, economiche e politiche necessarie a renderla efficiente. Anche perché la dicotomia ospedale-territorio è tutt’altro che vicina dall’essere superata e anzi, si sviluppa a partire da una relazione di dipendenza dell’area di montagna-città ancora molto forte.
Ora, con l’impossibilità di ricevere assistenza sanitaria gratuita all’ospedale di Briancon, condizione che colpisce soprattutto chi è in gravidanza, vuole abortire o necessita di cure assistenziali specialistiche, la condizione reale di benessere e salute sul territorio è sempre più ridotte all’osso.
Prendere consapevolezza della situazione è sicuramente un passo necessario. La Regione ha dimostrato il suo totale disinteresse non pronunciandosi o riportando affermazioni vaghe al limite della menzogna.
Vale la pena quindi immaginare e rivendicare scenari di cura e salute nuovi (o ripresi dall’ormai dimenticata medicina di montagna), più autonomi basati su reti di mutuo aiuto e conoscenze diffuse.