Rivendicare l’8 marzo

*Questa lettera è stata scritta per le studentesse dei collettivi della valsusa!

Care compagne, studentesse e giovani della valle,

vi scriviamo questa lettera per aprire la possibilità di uno scambio tra gruppi e generazioni diverse e proporre una chiamata collettiva nel fare nostra questa giornata dell’8 marzo. 

Una giornata nata storicamente come momento di lotta e riconoscimento del ruolo delle donne nei movimenti politici e nella società. Negli ultimi anni, movimenti come Non Una di Meno hanno ricordato che l’8 marzo non è una festa, ma un momento di sciopero, di lotta, di dissenso e di necessità di cambiamento che riguarda tanto le donne come tutte quelle soggettività sfruttate. 

Non sappiamo ad oggi se e cosa circoli nelle scuole come spiegazione ed insegnamento di cosa questa giornata rappresenti, ma alcune vostre compagne hanno espresso il desiderio di un momento di confronto che, se state leggendo questa lettera, vi è stato negato dalla vostra istituzione scolastica. Non possiamo essere lì con voi per parlarne. E non potrete probabilmente essere con noi in piazza a Susa con un ufficiale riconoscimento da parte della scuola. Se ci sarete vorrà dire che avete dissentito, che vi siete ribellate e sappiamo il costo che questo può avere. Se non ci sarete porteremo le vostre istanze per far sentire la vostra voce.

Con questa lettera vogliamo provare, non tanto a raccontarvi quella che è la storia di questa giornata ma quelle che sono state le rivendicazioni più importanti che ne hanno segnato l’evoluzione, con il desiderio di costruire insieme una giornata che possa essere significativa per tutte noi e per le lotte che portiamo avanti ma anche mostrare solidarietà per coloro che vivono in una solitudine quotidiana.   

Ogni movimento e ogni 8 marzo dal 1907 ad oggi ha messo sul tavolo del potere una rivendicazione precisa: poter votare e quindi esprimere la propria capacità politica, poter lavorare senza morire e senza essere sfruttate, poter decidere del proprio corpo, potersi sottrarre ai lavori riproduttivi. L’8 marzo non è solo una giornata dedicata alle donne, ma il momento simbolico per ribadire la natura anticapitalista, antifascista, anticoloniale, ecologista e antiautoritaria che questa giornata dovrebbe avere. 

Vedrete su internet che la storia di questo giorno sembra essersi giocata nelle assemblee dei movimenti politici. Ma oggi vogliamo aprire lo sguardo e raccontarvi di come questa sia in realtà una storia fatta nei luoghi di lavoro, all’interno delle case, nelle scuole, nelle realtà di autogestione della salute, nelle piazze. 

Un anno fa avete occupato la vostra scuola con una rivendicazione ben precisa: a scuola si impara, non si muore! Che ad oggi studentesse e studenti si trovino ad essere sfruttati gratuitamente nelle fabbriche e persino nel cantiere Tav e che di questo sfruttamento possano addirittura morire non è qualcosa che deve stupire. Ed è qualcosa che con l’8 marzo ha molto a che vedere. Avete continuato ad incontrarvi e ad organizzarvi, continuate a sfilare nelle strade e a disobbedire in virtù di una presa di coscienza e di cura non solo verso gli esseri umani ma verso la biosfera in toto. 

Leggenda vuole che l’8 marzo sia nato per ricordare le donne morte in una fabbrica di New York agli inizi del ‘900 e anche se non ci sono documenti storici che confermino tale avvenimento, è bene ricordare che le operaie hanno sempre avuto un ruolo fondamentale nei movimenti femministi. Così come lo hanno avuto le compagne socialiste, comuniste e anarchiche che all’interno dei loro stessi movimenti hanno ricordato ai propri compagni che non ci può essere rivoluzione senza libertà per tutte. Oggi compagne nel resto del mondo lottano per un’ecologia della cura che sia anticapitalista e anticoloniale. 

La scuola, insieme agli ospedali, il carcere, il lavoro, è tra le istituzioni funzionali al capitalismo per plasmare la consapevolezza e il comportamento. Sono spazi di egemonia, controllo e riproduzione. Se voi a scuola dovete lavorare è perché uno degli obiettivi principali del capitalismo è quello di trasformare i corpi in macchine da lavoro. 

I femminismi ci hanno insegnato che i processi che producono e riproducono l’ordine sociale sono stati storicamente applicati sul corpo delle donne. I corpi delle donne sono stati per secoli laboratori di dominio. 

Storicamente nel caso delle donne non solo il loro corpo era utile alla riproduzione meccanica del lavoro nelle fabbriche e nelle campagne, soprattutto in periodi in cui gli uomini erano chiamati ad essere soldati o in periodi in cui era necessaria una manodopera che potesse essere sottopagata e sfruttata maggiormente. Ma il corpo delle donne era anche utile per produrre il bene fondamentale del capitalismo ovvero la stessa forza lavoro. Lo facevano le operaie che producevano futuri operai. Lo facevano le casalinghe generando soldati e lo facevano in condizioni peggiori le schiave il cui valore era legato soprattutto al quantitativo di schiavi che producevano. La schiavitù è importante da ricordare perché è stato un fenomeno di riduzione dei corpi delle donne a macchine brutale, sistemico e normalizzato. E che non si creda che ad oggi non esiste più. Anzi, l’Italia è il terzo paese d’Europa per numero di persone in stato di schiavitù (nei lavori agricoli, nello sfruttamento sessuale, nelle fabbriche) e nonostante la retorica razzista che pervade la nostra società, la migrazione è il business e strumento di profitto preferito in Italia. E qui in valle dobbiamo ricordarcelo essendo questo un territorio di confine, di migrazione, di fuga se possibile a queste forme di destini. 

Oltre allo sfruttamento nel lavoro quindi c’è anche la questione riproduttiva. Al capitalismo servono lavoratori, consumatori e soldati. Controllare e rendere funzionale la capacità riproduttiva delle donne è di vitale importanza ed è per questo che l’aborto e le conoscenze legate al controllo riproduttivo in mano alle donne è stato criminalizzato. L’aborto si è mosso nel mondo come una pratica di ribellione nei confronti dei sistemi che venivano imposti. Abortivano le schiave per non generare altri schiavi. Abortivano le donne povere per non generare altri poveri. Uno sciopero silenzioso come quello che si svolge oggi nelle generazioni più giovani che non vogliono fare figli perché l’essere umano è terribile e la terra è in fiamme per causa sua. 

Negli anni ‘70 i movimenti femministi non guardavano più al diritto al voto e allo sfruttamento nelle fabbriche ma alla riduzione della loro persona a meri corpi, tra l’altro nemmeno liberi. Lo stato fascista tra le varie cose ci ha regalato l’attuale codice penale, che pur modificandosi nel tempo, contiene ancora la sua matrice dittatoriale. Il Codice Rocco aveva un intero titolo e ben dieci articoli che criminalizzavano l’aborto e non solo. Gli anticoncezionali potevano essere prescritti solo a donne sposate e al solo fine terapeutico di regolarizzare il ciclo. Il crimine di adulterio e di concubinaggio si applicava soprattutto alle donne. E l’aborto, a differenza del passato, era un crimine pubblico che minava il patrimonio demografico dello Stato. Ed ecco la manifestazione dell’8 marzo del 1972 a campo dei fiori dove ad aspettare ventimila donne di ogni età non c’erano mimose ma manganelli e violenza. Un tentativo di colpire e silenziare con la paura quello che poi diventerà il movimento femminista italiano, la prima presenza femminista nelle strade al grido della libertà sessuale e omosessuale, dell’annientamento del lavoro domestico, dell’autodeterminazione dei corpi e delle scelte. Un movimento che ha tentato di essere rivoluzionario attraverso la messa in discussione della normalità quotidiana con il famoso slogan che il personale è politico. Mettere in discussione il codice Rocco significa mettere in discussione quell’immaginario fascista che voleva la donna a casa a procreare patrioti e soldati, o nelle fabbriche a produrre armi o nelle colonie a subire violenze legalizzate tramite il madamato. 

Chi ancora mette in discussione la libera scelta dell’aborto è lo stesso che vuole criminalizzare ogni pratica di solidarietà e cura. 

In questa valle da un paio d’anni si sente che “la cura è nella terra”. Ebbene oggi siamo in un periodo dove la cura è in crisi. Una crisi che si è prodotta “dalle gerarchie di genere, di razza e classe, che porta al logorio fisico e psichico. Un logorio che riguarda gli esseri umani e le loro interazioni sociali con tutta la biosfera”. Il paradigma capitalista di riproduzione sfrutta e mercifica gli attori umani e non per produrre accumulazione e profitto. 

Se l’8 marzo nasce come lotta specifica per diritti specifici delle donne, oggi deve rappresentare un momento di incontro e riflessione che parte dai femminismi e si estende ad ogni campo del capitalismo.Per evitare che ulteriori studentesse debbano essere alienate alla logica del lavoro e dello sfruttamento, al deturpamento ambientale causato dal TAV, dall’autoritarismo dei presidi…ma anche per fermare i boschi che bruciano, le acque che si seccano, i polmoni che si infiammano e si ammalano…e ancora che si possa annientare una guerra giocata sulla libertà di scelta riproduttiva. 

L’8 marzo vogliamo essere in piazza a Susa perché a distanza di quarant’anni l’aborto è ancora un vizio di forma in una legge imperfetta come la 194. Perché in questa valle i consultori funzionano male, perché c’è un sotto organico dei medici, perché per abortire bisogna andare in Francia o a Torino, perché la regione da più soldi alle associazioni pro life di quanto non li dia ai consultori. 

Partiamo dall’aborto e ricreiamo reti di solidarietà che possano estendersi ad ogni sfruttamento.