Storia globale di aborto e gestazione: periodo greco-romano

*Con l’annuncio di un ulteriore incremento del fondo Vita Nascente da parte dell’assessorato alle politiche sociali della regione piemonte per le associazioni pro-life iniziamo un insieme di articoli legati alla storia antica dell’aborto in diverse culture. Questo lavoro è utile per comprendere come il dibattito sull’aborto in epoche e luoghi diversi non abbia mai realmente riguardato la donna. Parte dei primi testi è presa in sintesi dal libro di Giulia Galeotti “Storia dell’aborto”. La rubrica verrà aggiornata ogni mercoledì.

Nell’epoca greca antica e poi successivamente quella romana, pur essendoci di fatto l’arte della medicina e suoi seguaci uomini, l’aborto e la gestazione – così come anche la gestione del ciclo mestruale – era in toto campo di pratica delle donne. A livello teorico esistevano testi di ginecologia (il più celebre autore era Sorano di Efeso nel II secolo d.C.) ma la pratica non veniva considerata compito dei medici quanto piuttosto delle levatrici, parenti o della donna stessa. Giuridicamente non esistevano leggi che criminalizzasero l’aborto e anzi il feto veniva considerato sia un prolungamento dell’utero della donna che una non persona fino al momento della nascita.

Non esistevano metodi che supportavano la donna nel monitorare il proprio ciclo di mestruazione e fertilità, essendo questo molto irregolare per via dell’alimentazione e delle condizioni di vita dell’epoca. Il metodo più sicuro per comprendere a tutti gli effetti lo stato di gravidanza era quello che in inglese veniva chiamato quicken, ovvero quando si sentivano i primi movimenti del feto che segnava quindi anche il limite legale per la criminalizzazione dell’aborto. Quindi le donne semplicemente non comunicavano il momento del quicken o del concepimento in modo da non poter essere perseguite. Quindi di fatto era la donna a sancire l’esistenza di una gravidanza. 

Ci sono poche e scarse fonti storiche che parlano dell’aborto nell’antichità, proprio perché questo era a tutti gli effetti relegato al mondo femminile che ha avuto poca o niente voce storiografica. Si conoscono alcune delle piante utilizzate e si citano brevemente le levatrici come figure al limite tra il rispetto e la paura, essendo votate tanto alla vita quanto alla morte poichè si occupavano anche della preparazione delle salme. 

In generale questo tabù che limitava l’ingresso dei medici uomini negli affari femminili fece sì che si potesse creare un intero corpo di conoscenze a totale gestione delle donne. E se anche i dibattiti di tipo morale erano molti, legalmente l’aborto, soprattutto nell’impero romano, non era un crimine se non ledeva i desideri maschili di discendenza. 

Gli uomini di medicina e di scienza non la pensavano però così. Nel giuramento di Ippocrate compare è valido pensare che compaia la seguente promessa: “mai ad alcuna donna suggerirò prescrizioni che possano farla abortire” anche se i traduttori sono ancora in dubbio. Di tutte le testimonianze arrivate quello che appare chiaro è che il feto non veniva mai riconosciuto una persona finchè non fosse venuto al mondo, ma l’aborto era moralmente sbagliato poichè metteva in pericolo la possibilità di sopravvivenza dell’umanità. Ora, non abbiamo analisi storiche che abbiano analizzato in epoce e società differente la correlazione tra immoralità dell’aborto e tendenze imperialiste. Ma non stupirebbe se ci fosse una relazione proporzionale tra questi due aspetti: una società patriarcale ed espansionista, con strutture gerarchiche basate anche sulla schiavitù e il relativo atteggiamento all’aborto come crimine verso l’umanità. Il feto non viene mai considerato una persona sia legalmente che moralmente ma in epoca romana compare la prima legge punitiva proprio in virtù di questa visione che non riguarda il feto ma l’uomo come capofamiglia. Le donne sposate o divorziate vengono esiliate temporaneamente se procurato l’aborto contro il volere del coniuge, dato che in quanto di sua proprietà era l’uomo a poter decidere in materia. La punizione si basa sull’idea già citata che fosse immorale lasciare il coniuge senza discendenza. Mentre per colori che praticano l’aborto la condanna è di lavori forzati in miniera e la relegazione in un’isola. La pena di morte era prevista in caso di morte della donna. 

In un’epoca in cui le donne erano di proprietà di un uomo, la loro autonomia in questo campo non solo era considerata inaccettabile ma anche penalmente perseguibile. E’ tanto fondamentale proteggere il diritto naturale del capofamiglia alla discendenza che successivamente verrà introdotta la custodia del ventre nell’interesse del marito, obbligando la donna ad essere seguita e controllata da più ostetriche per evitare che possa scegliere di abortire.