Prima di andare in profondità rispetto alla visione ebraica relativa all’aborto bisogna riprendere un aspetto fondamentale che è caratterizzante di questa cultura tanto quanto della visione generale che ha portato alla criminalizzazione dell’aborto e di cui abbiamo parlato anche nell’articolo precedente: la salvaguardia dell’umanità.
In linea generale e molto sintetica la cultura ebraica fa perno sulla visione di un popolo eletto chiamato a popolare la terra per tutelare la presenza divina. Nelle Sacre Scritture la divinità promette una discendenza numerosa ed esprime chiaramente un forte disgusto verso il sangue e il suo spargimento contrario alla santità della vita. Sempre nei testi compaiono diverse volte citazioni relative ad una sacralità della vita prima della nascita, ma nonostante ciò il Talmud parla chiaro facendo riferimento al fatto che un feto non è una persona giuridica finchè non è nato ed appartiene al corpo della donna. Questo antropologicamente parlando è una visione sociale della vita fondamentale per regolare alcune questioni pratiche quotidiane. Per esempio nel momento in cui si compra un animale gravido si acquista anche il feto, oppure quando si converte una donna incinta si converte automaticamente anche il feto, oppure nelle abitudini rituali di impurità, omni presenti nella cultura ebraica.
Se pur simile alla cultura greco-romana, quella ebraica ha un elemento tutto suo: l’aborto è criminalizzato poichè il suo divieto è ordinato da Dio stesso per conservare e preservare il popolo del Signore.
Ci sono però due ulteriori elementi che si discostano dalla visione cristiana all’aborto: la prima è che comunque l’aborto non viene considerato al pari dell’omicidio, non essendo il feto una persona; l’altro elemento è che i rapporti sessuali non vengono considerati solo in relazione ai fini produttivi.
Un cambiamento importante in fatto di aborto avviene quando nel III secolo a.C. la Torah viene tradotta in greco. Se prima l’Esodo quale testo fondamentale in materia non considerava il feto una persona e quindi in caso di aborto provocato veniva richiesta vendetta (in caso di morte della donna definita col termine disgrazia poi erroneamente tradotta in forma) o compensazione (in caso di solo aborto) ai danni provocati ai coniugi, con la traduzione greca tutto cambia. Nel testo originale si parla di disgrazia o non disgrazia, intendendo la morte della donna mentre nella versione tradotta questa parola cambia in forma, sottintendendo l’esistenza o meno di un feto e quindi la vendetta con la morte in virtù del “una vita per una vita” non riguarda più la donna ma il feto formato o meno. In questo modo subentra l’idea che l’aborto sia equiparabile all’omicidio. Questo verrà poi utilizzata dalla morale cristiana nell’eredità presa in prestito dai testi ebraici.
In generale comunque, soprattutto nel corso del tempo, molti rabbini si sono espressi rispetto alla necessità dell’aborto in diversi casi: per salvaguardare la vita della donna, se la gravidanza è avvenuta in seguito a rapporti proibiti, in caso di prole “bastarda” ed è scelta della donna, e in epoca nazista per tutelare le donne che per decreto del regime dovevano essere giustiziate se gravide. In ogni caso ribadendo anche in questo secolo che aborto e omicidio non sono la stessa cosa.