*in questo articolo faremo ricorso al femminile plurale e singolare per indicare le figure professionali relative all’ostetricia. Siamo coscienti che tale figura sia stata femminilizzata e che questo mette in luce le gerarchie di genere nelle figure professionali sanitarie, ma rivendichiamo anche la dignità della professione che ha radici storiche nel ruolo delle donne. Essere ostetrica non vuol dire solo essere relegata al lavoro di cura nel campo riproduttivo ma anche essere detentrici di un sapere potente che è stato espropriato di alcuni suoi compiti come l’aborto.
Chi pratica l’aborto?
La risposta ci sembra ovvia e scontata: i medici ginecologi. Anche se di questi tempi la risposta è meno ovvia di quanto appare dato che, almeno in Italia, i medici ginecologi che praticano l’interruzione volontaria di gravidanza sono sempre meno. Dati alla mano ad oggi l’Italia, in cui l’aborto è previsto da una legge la famosa 194, è uno dei paesi al mondo con i più bassi tassi di abortività al mondo. E non per una particolare educazione alla contraccezione, ma perchè l’accesso all’aborto negli ultimi due anni è stato minato in modo drastico. Non è un problema solo legato al numero di obiettori tra medici e anestesisti ma anche all’obiezione non dichiarata delle strutture in generale (il 35% degli ospedali non prevede l’interruzione volontaria di gravidanza).
In alcuni paesi come il Regno Unito e la Francia, l’aborto non viene praticato dai medici ginecologi. Questo per due motivi:
- In primis per garantire un maggiore accesso all’IVG si fa ricorso a quante più risorse professionali possibili, comprese figure sanitarie formate e preparate come le ostetriche, che al contrarie dell’Italia studiano presso le Università non solo tematiche legate alla maternità e la gravidanza ma anche legate all’aborto.
- In secondo luogo, l’aborto come pratica medica vede una cultura della medicalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza e quindi una sua patologizzazione.
Cosa vuol dire questo ultimo punto? Vuol dire che culturalmente ci siamo scordati che il ruolo del medico dovrebbe essere quello di trattare le patologie o anche, accompagnare le persone in un percorso di educazione all’autonomia della cura. Il ruolo delle ostetriche si differenzia da quello del medico proprio da questo aspetto fondamentale: per questo pratiche come il parto in casa o le case della maternità sono basate sull’idea che l’esperienza del parto non dev’essere un’esperienza di malattia.
E perchè non dovrebbe valere lo stesso per l’aborto? Statisticamente e storicamente, l’interruzione volontaria di gravidanza riguarda un’esperienza di vita abbastanza comune (circa 1 donna su 5 almeno una volta nella vita decide di interrompere una gravidanza) tanto quanto lo è una gravidanza. Questo dato può essere interpretato come qualcosa di agghiacciante, come se ci fosse qualcosa di sbagliato nella nostra società. Ma non lo è. Sistemi di controllo delle nascite e di gestione del parto (di parto si muore e di maternità pure) sono sempre stati qualcosa di comune nella cultura umana. La contraccezione di qualsiasi tipo ha solo permesso di anticipare questo genere di autogestione a partire dal controllo sul proprio sistema ovulatorio.
Negli Stati Uniti, dove oggi vediamo un ribaltamento drammatico dei diritti riproduttivi, già nella metà dell’800 la neonata Associazione dei Medici Americani (AMA) con la firma del padre dei movimenti anti-abortisti Horatio Storer, iniziò una crociata non solo contro l’aborto ma anche contro le ostetriche. Nessuna base scientifica supportava questa lotta ma solo l’occulto dogmatismo patriarcale che vedeva nel desiderio di abortire un indice di follia che minava il naturale compito riproduttivo delle donne. I medici si eleggono a guardiani fisici delle donne e l’aborto è visto come un crimine sociale e un omicidio. Il risultato è stata la stabilizzazione di una cultura moderna medica sull’aborto e la criminalizzazione delle ostetriche.
Ma torniamo a loro, alle ostetriche. In Francia le ostetriche sono inserite nell’ambito dell’aborto farmacologico (non essendo chirurghi) e possono prescrivere la RU486 (che è coperta al 100% dal sistema sanitario) e dare supporto in telemedicina (banalmente al telefono) se necessario alle donne che interrompono la gravidanza a casa propria. Ma è una novità anche qui, infatti il ruolo ruolo è stato introdotto solo nel 2016 e potenziato con la pandemia.
La verità è che quelle che noi chiamiamo ostetriche, per secoli prima dell’avvento della medicina moderna, erano coloro che gestivano la salute a tutto tondo. Ma al contrario dei medici il loro sapere non era specialistico e occultato alle persone: l’uso di piante abortive o contraccettive era una conoscenza popolare, così come l’autogestione del parto. La levatrice o curatrice o strega, subentrava come supporto o in caso di complicazioni. Se avete mai assistito ad un parto in casa è esattamente quello che succede anche oggi: la donna è lasciata alla sua capacità di gestire le contrazioni grazie al percorso fatto in precedenza con le ostetriche con la quale si è relazionata e che l’hanno formata.
Se il parto, la sua demedicalizzazione e la violenza ostetrica sono stati messi in discussione e riformati, perchè non dovrebbe avvenire lo stesso per l’aborto? Ma attenzione! Non parliamo di un semplice cambio di ruoli senza cambiare gli elementi contestuali: introdurre l’ostetrica come figura di supporto all’interruzione volontaria di gravidanza significa appunto fornire un supporto demedicalizzato, se necessario (e questa valutazione viene fatta dalla persona che abortisce), alla possibilità di scelta di praticare l’aborto in autogestione, nella propria casa, con i propri tempi, con le persone con cui abbiamo complicità e intimità.